Relazione tenuta al MACRO di Roma in occasione del convegno Diritto alla città
Il primo elemento d’interesse del Diritto alla città è legato all’opportunità, che questa chiave interpretativa del fatto urbano offre, di chiarire un equivoco senza tempo: gli attivisti, i gruppi, le coalizioni sociali che si battono nell’arena cittadina non hanno velleità di muovere “contro” la città, piuttosto dentro un perimetro definito da densità di azioni, relazioni e contraddizioni. Dunque all’interno di questa cornice teorica anche la lotta politica, nel suo riconoscere la presenza di vita all’ombra di architetture e sottoservizi, assume il valore di una dichiarazione d’affetto per quegli spazi che, attraverso la produzione di vita e l’esercizio della prossimità, assumono il tenore di luoghi.
Il Diritto alla città è d’altronde irriducibile alla vertenza per l’ampliamento (fondamentale, attenzione!) della sfera dei diritti e dell’accesso a informazione, democrazia e commons. David Harvey, esponente contemporaneo di questa tradizione, è il cantore delle rivoluzioni urbane: nella sua geografia radicale la città assume le fattezze di un territorio in cui alla densità materiale e immateriale dei flussi, corrisponde quella delle frizioni e dei conflitti. Occorre però risalire alle origini del filone di riflessione teorica con la pubblicazione de Le droit à la ville, scritto pochi mesi prima del maggio francese, per riabilitare gli aspetti meno noti del pensiero di transizione, tra accademia surrealismo e situazionismo, di Henry Lefebvre.
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