Apparso su Il Manifesto (13 ottobre 2015)
La vita di Amed (in turco Diyarbakir) è frenetica: domenica si è svolto il corteo della società civile kurda, convocato in risposta agli attentati e al coprifuoco che insanguina la zona di Sur. I partecipanti sono stati aggrediti una prima volta nei pressi della stazione ferroviaria, la seconda a ridosso del filtro di polizia che chiudeva l’ingresso oltre le mura della città vecchia.
La voce si è sparsa subito e nuovi assembramenti si sono formati all’imbrunire con barricate improvvisate. Un palo della luce di traverso ad una via a scorrimento rapido bloccava il passaggio, mentre l’immondizia prendeva fuoco a grumi nelle vie più piccole. I protagonisti dei cortei erano i più giovani.
Dopo le sei del pomeriggio lo scenario del mattino si è ripetuto: non appena la marcia si è avvicinata alla «Porta delle montagne» (nome popolare della piazza che guarda all’altopiano che abbraccia la città), ma gas lacrimogeni e spari in aria ci hanno costretto alla fuga.
Ad Hasirli, zona libera nel cuore di Sur, oltre il primo filtro di controllo, gli scontri si sono protratti fino alle tre di notte. I tank delle forze speciali di polizia hanno tentato di forzare le pile di sacchi di sabbia, mentre il lancio di alcune bombe a mano ha dato fuoco a diverse abitazioni. Qui la conta dei feriti non ha numeri ufficiali, a causa dell’impossibilità di avere comunicazioni con il centro urbano; sono almeno quattro i morti, tra cui un bambino di nove anni in piazza Dag Kapi, cui vanno aggiunti gli otto militanti uccisi dai bombardamenti dell’aviazione turca nei pressi del cimitero dei martiri di Lice, a 90 chilometri dalla città.
Fuori dalle mura, i mezzi blindati, i «toma», hanno spostato col rostro quel che restava dell’immondizia fumante per le strade, illuminando col cannone spara acqua sparuti gruppi di lanciapietre in fuga.
Ieri una calma apparente regnava in città. Nella zona universitaria, nonostante diverse scuole siano chiuse per il terzo giorno di lutto nazionale e lo sciopero generale abbia bloccato alcune zone del paese, c’è ancora vita. Un via vai continuo di gente nei caffè, sedute all’aperto a bere çai (tè) con un occhio alle immagini che ancora scorrono in tv.
Nel primo pomeriggio di ieri un suono ha riecheggiato in lontananza, era un assembramento che mescolava fischi, battiti di mani e cori in lingua kurda. Dalla zona commerciale di Ofis, dopo aver fiancheggiato per 500 metri le mura, i manifestanti scorrevano ancora una volta in direzione della «Porta delle montagne».
In coda la polizia indossava le maschere anti-gas come fossero berretti, le armi bene in vista impressionavano i nostri sguardi disabituati ad una tanto manifesta minaccia di violenza. Gli obiettivi erano quelli di sempre: sfidare l’accerchiamento di Sur, denunciare la guerra psicologica e militare del coprifuoco, ribadire che, qualunque sia stata la mano che ha premuto il bottone, la responsabilità della strage di Ankara è dell’Akp e del suo leader Recep Taiyyp Erdogan.
«Assassini Akp, sarete giudicati», gridavano gli abitanti di Amed mentre i balconi fiorivano di mani con l’indice e il medio sollevati, a indicare la vittoria. La notizia di acqua ed elettricità nuovamente tolte a singhiozzo, assieme al racconto dei cecchini appostati sui palazzi più alti, si sono sparse nel corteo.
«Non dormite abitanti di Diyarbakir, proteggete la città vecchia»: intonavano i cori alla testa del corteo, allo stesso modo rispondevano dal cuore della marcia. Poco dopo internet e la rete sono saltati, gli idranti hanno sparato sulla folla, anticipando l’arrivo di potenti lacrimogeni, tanto rapidi da non farcene accorgere.
Poi l’aria si è intossicata e la folla è stata dispersa. I locali delle vie circostanti hanno aperto le porte per accogliere donne e uomini dagli sguardi atterriti e al tempo stesso colmi d’orgoglio, poi le serrande si sono richiuse in fretta. La polizia ha fatto irruzione nell’ospedale e il via vai dei mezzi è proseguito per diversi minuti. Nelle parole di questa città in stato di assedio, la continua tensione è figlia della polizia, controllata direttamente dal governo. «Qui si resiste per la libertà e l’uguaglianza di tutti, non solo dei kurdi», urlava la folla.