Riapriamo i navigli? Si…ma non con questo progetto

Il débat public sulla riapertura dei navigli di Milano è ai blocchi di partenza. Perché il percorso è una presa in giro, e perché questo progetto è un errore che (letteralmente) pagheremo tutti, sono le due domande cui proverò a rispondere.

Il sogno dei milanesi si sta per avverare: finalmente i navigli, bitumati nel corso del ventennio fascista, saranno restituiti alla navigabilità e alla pubblica fruizione con un progetto partecipato. Oppure no? Proverò in tre brevi capitoli a raccontarvi quello che ho capito dalla lettura dello Studio di fattibilità (da qui in avanti SDF) dell’opera e da quello che sta emergendo nelle fasi iniziali del percorso “illustrativo”, in vista della cantierizzazione di un’opera già decisa.

Ripasso

Questo, a titolo introduttivo, è il riassuntone ad uso dei più distratti: se siete ferrati sul tema potete procedere oltre. Dieci anni fa il Comune di Milano ha commissionato una serie di indagini che hanno portato nel 2015 alla redazione di uno studio di fattibilità per la riapertura di alcuni tratti del naviglio Martesana, a partire dal centro città. In campagna elettorale prima e in qualità di sindaco poi, Beppe Sala esorcizzò la sua sconfitta sulle Vie d’acqua di Expo 2015 promettendo alla città un referendum sul progetto. Negli ultimi sei mesi prima il referendum, poi il débat public, sono stati archiviati in nome di un più anonimo percorso d’informazione, che ha visto il suo “start” a due giorni dal termine dell’anno scolastico. Ancora un flashback. Ricordate i referendum consultivi del 2011? Uno dei quesiti recitava:

Volete voi che il Comune di Milano provveda alla risistemazione della Darsena quale porto della città ed area ecologica e proceda gradualmente alla riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi sulla base di uno specifico percorso progettuale di fattibilità?

Sulla base di una risposta scontata ad una domanda generica (si badi bene, il lemma navigabile non compare mai nel quesito) si sono spesi 17 milioni di euro per ristrutturare la Darsena secondo un progetto discutibile sotto il profilo storico ed estetico, oltre che per la sua vocazione mercificante dello spazio dell’antico porto. Ma è la seconda parte del quesito referendario a svelarne la meraviglia: “Volete voi che il Comune di Milano […] proceda gradualmente alla riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi sulla base di uno specifico percorso progettuale di fattibilità?”. Le parole significative sono “sulla” e “base”: volete che il Comune proceda “sulla base” dello studio? Si. Di studi se ne sono fatti due, nessuno ne ha più ragionato pubblicamente per quattro lunghi anni, ed oggi si procede con un ciclo di presentazioni blindate, propedeutiche a veicolare render, tranquillizzare gli animi e spacciare qualche miraggio d’affari in vista dell’avvio dei lavori. Vediamo insieme perché.

Il progetto

Per cominciare non parliamone più al plurale: il piano in discussione riguarda alcuni tratti del solo Naviglio Martesana, per un totale di 2 km, a loro volta divisi in cinque lunghe vasche separate da conche. Quand’anche si procedesse oltre questa ordinata sequenza di stagni (del costo complessivo di almeno 150 milioni di euro) e si arrivasse alla totale apertura del Martesana (per un totale di 7,7 km e una cifra stimata in almeno 4/500 milioni di euro) non potremmo comunque scomodare né il plurale, né alcuna forma di navigabilità libera dal giogo della turistificazione del centro città. Su questo tema tornerò più avanti, argomentando tempi di percorrenza alla mano. Una volta chiarito di cosa NON stiamo parlando, la seconda mossa chiave per intervenire sul tema è la lettura delle oltre 400 pagine dello SDF commissionato dal Comune di Milano. Prima che da ragioni di ordine filosofico e politico è da qui che si deve obbligatoriamente passare, e non solo perché qui ritroviamo i dati e gli argomenti con cui scardinare la narrazione estetizzante del progetto. Dobbiamo partire dal documento tecnico perché solo così è possibile chiarire l’opposizione a questo progetto di riapertura del Naviglio Martesana, che non coincide con una generica contrarietà all’idea di una Milano che ritrova sintonia con la sua storia secolare di città d’acqua. Riassumendo: nessuno (o quasi, e comunque non io) è contrario all’idea di scoperchiare i navigli, tantomeno di renderli fruibili e navigabili. Tutt’altro discorso è prendere in mano un dossier che racconta un preciso programma e svelarne costi, limiti, contraddizioni e rischi per la città pubblica e la stessa qualità della vita a Milano. Proviamo insieme?

10 tesi sullo studio di fattibilità (SDF):

  1. COSTI: ad oggi è facile stimare che, una volta stilato il progetto esecutivo, l’opera venga a costare almeno 600 milioni di euro e che sia il pubblico a pagare. In un regime di scarsità di risorse è giusto chiedersi se il merito del progetto, il metodo del dibattito e le priorità di spesa siano stati attentamente ponderati. E ancora sarà lecito domandarsi: gli introiti, invece, di chi saranno?
  2. BILANCIO ECONOMICO: nello SDF si asserisce che l’opera avrà un bilancio attivo ed effetti benefici sulla qualità della vita. L’architrave di questa vision sta nell’apprezzamento dei valori immobiliari in prossimità dell’opera: “759,9 milioni si riferiscono all’aumento dell’utilità dei residenti misurata attraverso l’incremento dei valori immobiliari residenziali e 66,9 all’aumento della profittabilità attesa degli esercizi commerciali”. In parole povere arricchendo i proprietari (con la spesa pubblica) si stima che migliori “a cascata” la vita di tutti. Il documento si rivela un vero e proprio bigino neoliberista quando parla di “incremento della rendita immobiliare come indicatore di benessere: questo passaggio logico e teorico deve essere ben compreso […] attraverso un rivelatore “oggettivo” come un prezzo di mercato” (pag. 128, vol.2).
  3. OBIETTIVI: L’operazione annunciata punta alla valorizzazione immobiliare, all’aggiornamento della sua immagine turistica, alla restituzione di una cartolina che distribuisce rendita ai ceti proprietari del centro storico ed eventualmente all’accelerazione, a cantieri aperti, di altre attività nel sottosuolo della city. Ogni altro affresco culturale ed ogni altra velleità di intervento sul sistema delle acque, è completamente secondario in questa cornice.
  4. NAVIGABILITà: la navigabilità, scomodata ossessivamente nelle gallery di render di ogni sito d’informazione, è limitata a imbarcazioni standard per turisti modello “city sightseeing” ma coperte. L’affermazione secondo cui l’opera sosterrebbe la mobilità dolce locale è smentita dai tempi di percorrenza della tratta, stimata dallo SDF stesso in oltre due ore e mezza, per via dei tempi di trasferimento attraverso le dieci conche previste. Non basta? Andiamo dunque a pagina 49 dello SDF (Vol. 1) dove si esplicita che “la navigabilità dei Navigli milanesi non è un requisito in grado di restituire a breve o medio termine la navigabilità del sistema complessivo dei Navigli lombardi”.
  5. TRAFFICO: in assenza (occasione persa tra le altre) non dico di una politica di pedonalizzazione del centro città ma anche solo di un onesto piano del traffico urbano, lo SDF si affida al PUMS 2024 (per esteso Piano urbano della mobilità sostenibile) per il ricalcolo degli effetti della cantierizzazione e dell’opera a regime sugli spostamenti urbani. Con quali esiti? La parola chiave non è mobilità dolce ma congestione: “impatti negativi sui grandi flussi veicolari attuali”, “a mancare un numero significativo di posti parcheggio auto” e non ultimo “aggravio della congestione sulla rete” (pag. 93/94 vol.2).
  6. CICLABILITà: a corroborare l’idea per cui la ciclabilità della città viene penalizzata dal progetto sono le sezioni pubblicate nello SDF: quando le piste ciclabili non sono direttamente sacrificate, si procede sistematicamente al loro infausto accorpamento con i marciapiedi e quindi gli accessi ad abitazioni, box, esercizi commerciali (pag. 110/113/117, vol.2)
  7. MOBILITà PUBBLICA: riassumendo l’autobus 94 sparisce (sostituito da una metro che ha intuitivamente un funzionamento diverso essendo linea di potenza con fermate ben più distanti e orari di attività differenti), diverse piste ciclabili spariscono, il marciapiede viene condiviso tra pedoni e bici e la tabella di percorrenza delle singole tratte non darà scampo a chi sperava in ecologici spostamenti in bagnarola.
  8. PERIFERIE: il tema delle risorse pubbliche sottratte alle periferie per concentrare gli interventi nel feudo del centro storico è sicuramente d’interesse ma dobbiamo intenderci. Per evitare che la puntualizzazione sia d’appiglio per accusare di demagogia e populismo i detrattori del progetto è importante argomentare: ogni due anni diversi quartieri della città, dall’Isola a Niguarda, scontano con allagamenti e danni le molte fragilità del sistema idrico milanese. Oltre alle politiche pubbliche, oltre all’accesso all’abitare, ai servizi, al lavoro e alla mobilità, è sul tema specifico della regimazione delle acque che l’equilibrio periferia-centro va ripensato.
  9. CITTà PUBBLICA: per cominciare pubblicità nei tunnel, esercizi commerciali ricavati sotto il piano stradale in prossimità della promenade che fiancheggia il canale, ticket di accesso al battello… (sezioni alle pag. 239/245/250/357 del vol.1) E’ la proposta stessa, nella sua totalità, a tradire l’afflato commerciale e del turistico che sottende questa campagna di lancio pubblico. Un esempio? Lo scorso 10 ottobre 2017 il Corriere Milano titolava “Un nuovo grattacielo per finanziare la riapertura del Naviglio in via Melchiorre Gioia” riprendendo le parole dell’assessore all’urbanistica secondo cui il nuovo grattacielo di Coima coprirà con gli oneri di urbanizzazione (perché?) una parte dei costi. Quanto non è dato sapere ma soprattutto perché legittimare la privatizzazione di un’area pubblica (a due passi dall’ex bosco di Gioia) con l’occasione di dichiarare l’utilizzo dei suoi oneri per l’acquatico progetto? La città pubblica è già sotto scacco.
  10. RIAPRIRE I NAVIGLI: questo progetto NON prelude in alcun modo un intervento integrato sul sistema navigli (oltre 150 km di estensione, nessuna copertura economica), tantomeno una progressiva apertura alla navigabilità degli stessi. Il fatto che non una riga sia dedicata ai costi di manutenzione dell’opera dovrebbe bastare a segnalarlo. Con la M4 che ha già toccato il tetto di 2 miliardi di euro di costi (per lo più soldi pubblici) il rischio di sperperare una cifra che verosimilmente si aggirerà a lavori ultimati sul miliardo tondo, profila un effetto pietra tombale più che lo start di un processo di intervento complessivo che ad oggi non è confortato da alcuno studio effetti/benefici, né di alcuna stima dei costi sul lungo periodo.

Il Débat public

Utilizzato in Francia e normato da precise regole anche in altri paesi, il “dibattito pubblico” è un “processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità e le soluzioni progettuali di opere, progetti o interventi articolato in incontri di approfondimento, discussione e gestione dei conflitti”. Nell’ordinamento nostrano è stato introdotto non più qualche mese fa, in riferimento a tipologie specifiche di grandi opere. Ha la durata teorica di quattro mesi e non è tecnicamente una forma di democrazia diretta o avanzata, non prevedendo alcuna forma di cessione di potere decisionale. In altri termini, se fatto bene, può essere comodamente disatteso, ha quindi la funzione dichiarata di accogliere le modifiche utili ad aggiornare il progetto prima della fase esecutiva, non di una discussione a tutto campo sul senso, gli obiettivi, i rischi di una proposta pur articolata.
Al netto di questo criticità di ordine metodologico, questo non sarà nemmeno un débat. Infatti delle quattro fasi inizialmente previste (pubblicazione, informazione, confronto e integrazione del progetto) sono state mescolate in un’unica stagione (quella estiva!) con un palinsesto di incontri di presentazione pubblica dell’opera e delle sue singole tratte di 45 giorni, in assenza di un sano confronto tra persone e soggetti (anche fortemente critici) che sul tema hanno lavorato nel tempo. O qualcuno pensa ancora che la domandina da dibattito formale di fronte ad una platea digiuna e al tempo stesso sfiancata da incontri di ore sia un esercizio di democrazia?
In questo senso il processo attivato dal Comune di Milano in collaborazione con “Mr Navigli” PIllon assomiglia sempre più a un dispositivo di creazione del consenso e disinnesco di conflitti latenti che una didattica della cittadinanza attiva attorno al tema specifico del futuro dei navigli e del sistema delle acque della città. Attenzione non parlo solo del fatto che ogni voce fuori dal coro, dall’attivismo all’accademia, è stata semplicemente tenuta al di fuori del perimetro del débat ma del fatto che non c’è alcuna idea né intenzione di rendere permeabile tale processo alla cittadinanza. L’ascolto pubblico assume una semplice funzione di tranquillizzare e lasciar sfogare, di affascinare con la narrazione e ostentare un dialogo di rappresentanza.

La Milano del 2030

Una città “connessa, inclusiva e attrattiva”, “green, ecologica e resiliente” e ancora “di quartieri da chiamare per nome”. Sono i titoli della tre giorni ospitata dalla Triennale di Milano nel mese di maggio per affrescare una vision su Milano da qui a dieci anni. Il Piano di Governo del Territorio è scaduto da un pezzo e mai rinnovato, i temi di maggior rilievo bypassano il consiglio comunale per essere vagliati in sede di giunta, il Comune si fa sempre più spesso mero regolatore di interessi privati (quando non vero e proprio alleato della controparte com’è nel caso della partita sugli scali ferroviari) ma questo pare non spaventare nessuno. La città metropolitana non ha i soldi per chiudere il bilancio non triennale ma annuale, il modello Milano evoca accoglienza e solidarietà mentre militarizza stazioni, trasporti e lo stesso spazio pubblico, le fasce più deboli sono invitate a lasciare il campo da sfratti, sgomberi e sotto la scure di un patrimonio di edilizia residenziale pubblica non rinnovato e troppo spesso chiuso mentre nulla si muove per penalizzare lo sfitto oramai dilagante. Gli scali ferroviari sono a un passo dalla bitumazione definitiva, 5 aree della città in vendita dietro la sinuosa campagna climate-friendly di #reinventingcities, 23 caserme in dismissione così come la Piazza d’Armi eppure la locomotiva Milano singhiozza a colpi di eventi, settimane, grandi ospiti, grandi drink, tanto lavoro. Non so immaginare che forma avrà la Milano del 2030, se l’isola che già oggi questa città costituisce nel panorama nazionale sarà un esempio di buon governo o una distopia tecnofinanziaria. Quel che è certo è che il gap tra le politiche pubbliche e il marketing pubblicitario che la città sparge a pioggia sui suoi cittadini mi fa sentire già oggi in un allevamento di polli, più che un coq-sportif.

Le domanda aperte restano molte: quale utilità collettiva se sottoservizi e infrastrutture private vengono aggiornati con investimenti pubblici? Come evitare la museificazione del centro e l’ulteriore gentrificazione del territorio? Come combattere l’effetto canyon determinato dalla “navigazione” ben sotto il piano stradale? Quali extra-costi per l’impermeabilizzazione del fondo anche solo in ambito urbano? Come, lo sostiene il sito del Comune e lo SDF stesso, questo progetto dovrebbe trainare la realizzazione degli itinerari Parco Ticino-Parco Agricolo Sud o addirittura l’immaginifica linea fluviale Locarno-Milano-Venezia?
Il percorso che si è aperto ieri a Milano è l’ennesima occasione mancata per offrire delle risposte anche a questi ulteriori quesiti. Oggi è il momento di insistere per ottenere non solo risposte ma sovranità popolare, e, al tempo stesso, di aprire la riflessione a quanti sono “fuori” dalla kermesse.


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