Il confine è stato calpestato. Cronaca di una giornata tra Ventimiglia e Mentone.

L’appuntamento a Ventimiglia è al parcheggio di via Tenda ma noi arriviamo abbastanza presto da riuscire prima a salutare il mare, calmo all’orizzonte e già schiumoso a riva. Registro i suoi suoni. Tra le auto parcheggiate sotto i piloni della Statale 20 si respira l’aria delle grandi occasioni: non è una manifestazione eppure non sarà “solo” un’escursione. Almeno questo è chiaro a tutti. Al ritmo dei su e giù del passaggio a livello arrivano le prime auto da Genova e Milano, Torino, Savona e chissà da dov’altro.

Tra i capannelli, scrutati con occhi curiosi dagli agenti in borghese, si scambiano sorrisi, sacchi a pelo e generi di conforto: qui abitano gli informali, da qui ripartono a piedi i respinti di ieri alla volta del confine di stato. Tra di noi c’è chi qui ci si spende quotidianamente, eppure una distinzione precisa permane tra chi può fare il gesto di valicare la barriera e chi no. In questa linea, anche più ostile del filo spinato, c’è tutta l’impermanenza dei nostri simboli, c’è l’impossibilità, per un’escursione organizzata e pubblica, di infrangere oggi i tanti confini che ci portiamo con noi, ci sono gli effetti che la repressione ha scatenato contro la saldatura tra nativi e migranti.

Niente megafono al parcheggio ma un’attesa sempre troppo lunga per organizzare la carovana, infine si parte: Villa Boccanegra, Latte, Mortola inferiore, bivio per Grimaldi. L’ultima frazione prima del Ponte di San Luigi si affaccia da 200 metri sul livello del mare sopra i Balzi rossi. Il posteggio di trenta auto sulle curve dell’ultima strada è un’esperienza da assaporare con calma. Arrivano un paio di telecamere, altri due “in borghese” con buffe borsette a tracolla, qualche locale affacciato per interpretare una comitiva tanto numerosa e improbabile. La notizia nei giorni scorsi è uscita scompostamente sui notiziari della riviera e non solo, a fine giornata si parlerà di tante e tanti camminatori sodali a pulire tutto il sentiero usato da chi fugge dallo stivale. Sky invece rinuncia. Nessuno gli vuole parlare? Non è tanto quello, non prende bene la rete per fare la diretta quindi la news non c’è.
Quando ci muoviamo per davvero sono almeno le 11,30, saremo 150 donne e uomini, qualche bimbo e un po’ di diversamente giovani. Il sole avvampa, pare tarda primavera e siamo presto in maniche corte. I colori della montagna si accendono, a contrasto dei grigi piloni dell’autostrada che invadono la piega del monte e a contrasto delle tracce che incontriamo copiose sulla rotta.
Come indizi sul sentiero di una speranza dolorosa appaiono maglioni sbiaditi, brandelli di carte bianche, ricordi di scarpe e tessuti. Sosta alla fonte. Il sentiero è stretto ma intuitivo eppure viene chiamato Sentiero della morte qui.

Giunti sul colle antistante, quello sovrastato dal filo spinato, le/i compa del CAZ (Collettivo Alpino Zapatista) hanno posizionato alcune corde fisse, anche perché nei giorni scorsi ha piovuto e qui il sentiero piega improvvisamente verso l’alto per raggiungere la schiena del monte. In 45 minuti siamo su e solo a questo punto mi accorgo di quanto lungo sia il serpente ordinato dei camminanti. Uno alla volta si passa nel buco della rete di ferro, il suono ritmato delle pale d’elicottero, ci ricorda con quanto affetto anche la polizia d’oltralpe si preoccupi di noi. Ci aspettiamo, noi “apeine e apeini” ci spargiamo sul monte, ci facciamo largo nella macchia tra le essenze odorose.
L’atmosfera festante è rotta da qualche intervento al megafono: gli indigeni raccontano l’impresa quotidiana di chi prova a varcare i confini, le iniziative solidali e chiariscono le righe di apertura del testo di convocazione di Calpestiamo il confine:

Tra Ventimiglia e Mentone un confine divide in due una montagna. Potresti non notarlo camminando tra il paesaggio, spaziando con lo sguardo sul mare. Ma quel confine, chiuso, c’è e uccide. Più di tredici persone in un anno. Provare ad attraversarlo per qualcuno è un sogno. Più di un sogno. Un obbligo imprescindibile.

Si parla con e senza megafono, litigando come al solito con la voce che va e viene. Si mangia insieme, al sole, e si posiziona un’altra barricata e un’altra corda fissa, a impedire l’accesso al sentiero che va al burrone. I cartelli posti nel dicembre scorso sono stati divelti dalla polizia, i segnavia sui sassi restano. Chi ha i documenti muove oltre confine, sul versante occidentale del monte dove la boscaglia lascia immediatamente il posto a rocce e cespugli ispidi. Chi resta comincia i lavori di pulizia del sentiero che, con grandi sacchi gialli e guanti, proseguiranno per tutta la via del ritorno. Gli altri si incamminano verso nord, alla volta della strada sterrata che, affacciata su Mentone, porta al primo paese oltreconfine, Castellaro. La linea di costa è punteggiata dai palazzi di Montecarlo in lontananza e il mare giù in fondo luccica e rimbalza ovunque raggi di sole.

Ci compattiamo alla vista del primo di due posti di controllo con la polizia francese sul cammino. Scatta il dibattito: «Ci fermiamo», «No, passiamo che siamo tanti», «Allora se ci fermano possiamo dargli i documenti, chiaro controvoglia», «No checcazz’ oggi va così e non beccano nulla, punto». Nel caleidoscopio di storie che compone il nostro gruppone non si decide nulla di che. I cori rivolti all’elicottero, ora guardingo in bassa valle, non si sentono più ma si avanza silenziosi e compatti. Loro si spostano, noi andiamo avanti. Trecento metri dopo, in cima alla salita, loro si spostano e noi andiamo avanti. Solo in una piega qualunque dello sterrato ci fermiamo con uno sguardo all’orologio. Ancora un momento di scambio, ancora due aggiornamenti sulla condizione delle donne migranti a Ventimiglia, su quello di cui c’è quotidianamente bisogno. Poi si riparte con l’Italia appena qualche metro a levante, al di là del filo spinato arrugginito. Il pensiero corre a chi qui passa il turno o viene placcato nella sua partita verso la libertà, all’idiozia dell’invasione, all’ingiustizia profonda della facilità con cui la merce viaggia dove il corpo dev’essere autorizzato, controllato, ispezionato, incasellato dentro quote di equa sopportazione della democratica europea.

Sul cornicione di pietra e cemento di via della Pace stazioniamo con le gambe a penzoloni. C’è ancora più bisogno di sbriciolare le frontiere e calpestare i confini.


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