Questo brano è apparso su Jacobin n. 04 in verione ridotta con il titolo Sciopero globale. Le radici e le ali.
Lo scorso 24 giugno una Milano ancora scottata dalla mancata assegnazione dell’Agenzia europea del farmaco, ha festeggiato l’assegnazione delle Olimpiadi invernali del 2026 alla guida di un creativo ticket lombardo-veneto con Cortina e Bormio. Nella stessa settimana, stampa e social non ne hanno dato alcuna rilevanza, la prima città italiana a dichiarare l’emergenza climatica ha anche abbandonato la corsa per ospitare la 26a COP sui cambiamenti climatici.
Sono passati sedici anni da quando la città di Sant’Ambrogio ospitò la sessione numero nove della Conferenza delle Parti (COP) che hanno sottoscritto la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. Era il dicembre del 2003 e mentre la storica Fiera della città accoglieva i 4000 delegati pervenuti, uno sciame di attivisti a pedali manifestava tutta la sua contrarietà ad un approccio destinato a traghettare le COP in un limbo di trasferimenti tecnologici, mercati di quote carbone, finanziarizzazione della crisi e vacue promesse politiche. Sul poster che convocava la massa critica dei dissidenti era dipinto in bianco e nero un onirico ciclista alato, su sfondo di miasmi industriali. L’evoluzione del pensiero ecologico è una controstoria della civiltà industriale. Nel susseguirsi delle sue stagioni, nell’incontro-scontro delle sue scuole di pensiero e azione, si ritrovano non solo gli orientamenti soggettivi ma l’evoluzione stessa del discorso pubblico, di fronte al sincopato incedere del processo di industrializzazione e modernizzazione del globo terracqueo.
Non si può dire che in Italia i testi di Edward Abbey abbiano mai avuto un successo editoriale smodato, eppure testi come I sabotatori o il motto “Resistere molto, obbedire poco” di Fuoco sulla montagna credo abbiano seminato altrettanto profondamente, benché più silenziosamente, della Primavera di Rachel Carson. Sono nato qualche mese prima di Chernobyl e cresciuto leggendo Disobbedienza civile prima che Walden, vita nei boschi. Quindi Natura e società, L’isola della tartaruga, Liberazione animale, Futuro primitivo, Armi acciaio e malattie. Ho navigato a vista tra le correnti del pensiero ecologico con i video sgranati e festaioli di Reclaim the streets scaricati da NGV e gli opuscoli sulle tattiche con cui Earth First! difendeva foreste ancestrali. Scandagliavo fanzine alla ricerca di legami tattili e visivi con la mia quotidianità confortevole, per quanto concitata, di attivista in facoltà e negli spazi sociali. Se dopo i giorni di Genova tutto era mutato per l’alleanza altermondialista, chi (da queste latitudini) guardava con attenzione ai temi della crisi ecologica, non poteva non essere colpito dal contemporaneo emergere di forme di attivismo inedite rispetto alla consunta tradizione ambientalista del ‘900.
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Agli occhi di chi sublimava in progetti di autocostruzione e reti territoriali la propria fame di movimento, le sigle storiche dell’associazionismo avevano smarrito ogni afflato liberante ed ogni prossimità con l’etica e l’estetica dell’azione diretta (e non squisitamente comunicativa) nei confronti dei decisori, dei responsabili. L’ambientalismo, anche nelle sue configurazioni radicali, mostrava tronfio l’antinomia tra exploit comunicativi spettacolari e un’architettura organizzativa iperverticista e, almeno ai miei occhi, incapace di mutare la fascinazione in azione. In questa gelatina di sensazioni, influenze e letture mi muovevo anch’io biasimando Greenpeace prima di rimanere deluso da Sea Shepherd che si baloccava con carte di credito brandizzate e serial televisivi. Tutta gente tosta e comunque distante dalla sussidiarietà della cooptazione in cui erano invischiate altre storiche sigle che avevano dato i natali alla stagione protezionista prima e conservazionista poi, dell’ambientalismo in salsa nostrana.
Su tutti i nomi di Torrey Canyon, Exxon-Valdez, Three Mile Island, Bhopal, lo tsunami del 2004 e ancora quello che nel 2011 causò l’incidente di Fukushima: ciascuno di questi eventi catastrofici, figli di un preciso modello di sviluppo oltre che di errore umano e agenti naturali, hanno mutato nel corso di soli cinquant’anni la percezione della potenza e impotenza umana di fronte alla forza disarmante della Terra. Ciascuno di questi nomi è impresso nell’immaginario ecologico globale, con la stessa nitidezza che la battaglia di Comiso o Montalto di Castro hanno avuto per la generazione che ci ha preceduto. Le grandi battaglie degli anni che corrono verso il presente sono in Italia legate anzitutto alle lotta alle grandi opere inutili e nocive (e imposte) oltre che al ciclo dei rifiuti: figlie, prima che di una compatta matrice ideologica, della rabbia di territori stressati dalla pressione sviluppista, del dissesto cronico, della condizione di subordinazione permanente delle terre interne nei confronti dello spazio direzionale urbano. Dal sud al nord della Penisola la voce di Niscemi, Scanzano Jonico, Chiaiano, Colleferro, Malagrotta, danno voce anno dopo anno alla periferia viva del Paese. L’8 dicembre 2005 il Movimento NoTav convoca una marcia popolare incomprimibile come l’acqua. L’invasione dei campi destinati al cantiere di Venaus sprigiona un’energia incredibile e diventa un punto di riferimento per i Comitati che da anni si battono contro il Ponte sullo stretto, i Comitati NoMose e NoMuos tra i molti. A difesa dell’occupazione muoviamo grandi tronchi per chiudere la provinciale che collega la bassa valle con Venaus, Novalesa e Moncenisio.
Dagli albori degli anni Duemila il vento della liberazione animale (forse non più animalista, non ancora antispecista) ha intanto raggiunto le nostre coste e non passa molto tempo prima dell’arrivo dei climate camp, o campeggi di azione climatica. Attacca l’industria della pelliccia e chiudere Morini sono le due campagne attorno a cui, per un paio d’anni, si lavora a traghettare un certo attivismo di matrice anglosassone, affezionato alla vecchia scuola ma eccitato dall’ALF, in una versione anarchica e non priva di esiti al di sopra delle aspettative..oltre che di qualche seccatura giudiziaria. La ritualità dei controvertici, un neverending classic, viene mutuata e contaminata in happening che fanno dell’autocostruzione, del recupero, di tecnologie conviviali, un naturale completamento dell’esercizio del conflitto. OGM e multinazionali, piste aeroportuali e foreste sotto scacco, miniere e scorie nucleari sono i totem della protesta globale, i cui echi si contaminano decisamente con le ecologie che provengono dall’emisfero australe e parlano di giustizia ambientale, sovranità alimentare, accesso all’acqua e responsabilità differenziate nella gestione della crisi ecologica.
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Nel 2009 grandi speranze sono riposte su Copenhagen. La COP 15 è una sorta di appendice Obamiana, destinata a tradire le velleità di quel mondo che voleva prendere parola al summit senza governare la spartizione ma anche a sancire un nuovo protagonismo istituzionale nella questione ambientale. Noi eravamo di stanza nei pressi di Norrebro, abbiamo imparato a guidare la bici col contropedale e abbiamo scommesso, perdendo, che la polizia non sarebbe entrata a Christiania. Quella settimana segnò le vette più alte del network gemello “dei” nord e sud del mondo CJA e CJN (rispettivamente Climate Justice Action e Climate Justice Network) anche se, personalmente, ho trovato piuttosto geniale lo slogan no-future degli anarchici di “Never Trust a Cop”. Nel mezzo ci sono i primi timidi tentativi di importare nel Belpaese la formula dei climate camp: un paio a Milano, uno a Torino, più avanti nel nord-est dove fondative sono le attività contro la semina di coltivazioni OGM e pesticidi.
La COP21 di Parigi, nonostante la grande grinta di Via Campesina e Sem Terra, non avrà lo stesso sprint al di fuori del palazzo e la separazione tra la dinamica pulita e compatibile dei workshop e la piazza è stridente. L’autocostruzione si fa design, le brochure sempre più precise e patinate, il corteo libertario separato e braccato, la Cop sancisce un accordo che non soddisfa nessuno ma piace a molti, a troppi. Ai Jardin Partagé ci confrontiamo con le attiviste e gli animatori della lotta No Nuke di Bure mentre nel salone principale si imbastiscono grandi coreografie per la manifestazione del giorno seguente.
Il trend che ci accompagna dalle giornate parigine prende passo passo il tono di un mantra: sotto 1,5 di surriscaldamento la terra vive, sopra 1,5 gradi di surriscaldamento la terra muore.
La stagione presente e post-parigina vede l’emergere di un paio di fatterelli di portata globale: una studentessa sedicenne di Stoccolma, probabilmente ignara del precedente di Severn Suzuki, fa sua l’idea di uno sciopero periodico della scuola per fare pressione sul governo svedese; una manciata di settimane prima nasce Extinction Rebellion, movimento eco-pacifista certamente influenzato dalla stagione di Occupy con un logo da totalitarismo green. La giovane Thunberg diventa un fenomeno mediatico ai limiti della pornografia anche all’interno dei movimenti studenteschi che raccolgono con fideismo il suo messaggio severo ma giusto, la sua arrabbiata iconicità fa presto breccia nei cuori degli haters di mezzo mondo. Il 15 marzo milioni di persone, specialmente studentesse e studenti medi, scendono in piazza in tutto il mondo per il primo Sciopero per il clima. Milano si distingue con un’epifania di oltre 100.000 manifestanti. Il secondo sciopero climatico globale viene calendarizzato alle porte della tornata elettorale europea, a conferma che la prosa thunberghiana non chiede nulla a nessuno ma parla con schiettezza alla politica di palazzo, oltre che puntare il dito sulla classe dirigente e il low cost lifestyle. Le città di Milano, Torino, Napoli, la regione Toscana dichiarano l’emergenza climatica. A livello locale sarà questo il primo esito di manifestazioni dal grande protagonismo studentesco, con cui la stampa convola a nozze diluendo il messaggio e la carica innovativa del doppio fronte aperto da FFF ed Extinction Rebellion. FFF? Si, a convocare ogni venerdì attorno alle ore 12 giovani e meno giovani di fronte a parlamenti e municipi sono i Fridays For Future. Dietro questo cartello la voce delle scuole prima, e un eterogeneo aggregato di sodali poi, porta avanti con continuità la proposta di un blocco della formazione, della produzione, della distrazione dalla crisi ecologica presente. Dall’ambientalismo all’ecologia, dal surriscaldamento al cambiamento, dal depauperamento all’estrattivismo, dall’antropocene al capitalocene e dal cambiamento alla crisi ecologica. Il lessico di questa generazione di attivisti si precisa via via senza fare sconti alla tradizione.
La prospettiva intersezionale segnala con urgenza il bisogno di considerare l’ecologia politica nell’operazione di cucitura delle lotte che, a partire dai territori, possano tutelare il genuino orizzonte anticapitalista delle vertenze per il clima. Già, ma a chi lo segnala? A chi scrive, a chi studia il fenomeno dei profughi climatici, a chi lascia la classe col cartello cartonato in mano.. A fine giugno, ad Aquisgrana, si sono incontrati i protagonisti di questa nuova generazione climattivista. La loro call to action, della durata di una settimana, lancia il terzo global climate strike, dal 20 al 27 settembre e si chiuderà con una nuova grande giornata di piazza. Pochi giorni più tardi, in occasione del recente rimpastino della giunta meneghina, il sindaco Beppe Sala ha avocato a sé le deleghe in materia ambientale. Un gesto che punta a consolidare la narrativa del suo governo locale, la nota bolla di Milano, nei confronti della crisi climatica. Epifania o sussunzione reale dei venerdì all’insegna del futuro? Non suonasse tanto stercofonico, si dovrebbe rispondere con la chiarezza che hanno gli anticapitalocenisti.
Nel momento in cui mi avvio alla rilettura del pezzo siamo 7 miliardi, 713 milioni e 17.205 umani a calcare il geoide: una specie dominante piuttosto diffusa in cinque dei sei continenti emersi. Tra i problemi ecologici che abbiamo determinato in poco più di 200 anni si annoverano: riduzione della biodiversità (in particolare quella vegetale), acidificazione dei suoli, scarsa ossigenazione degli oceani, aumento dei fenomeni meteorologici estremi, inquinamento e degradazione dei terreni, scomparsa di biomi ancestrali, disboscamento…giù giù fino a giungere ai cambiamenti climatici, definizione pittorescamente accostata a quella (pur vera e non equivalente) di riscaldamento climatico.
Il 3%, un’enormità ma pur sempre un’enormità calcolabile, è la quota parte del PIL globale che l’INET (Institute for new economic thinking) stima debba essere stornata per mitigare il surriscaldamento climatico e non sforare il tetto di 1,5 gradi di aumento della temperatura media di quel sottile strato di 10 km di atmosfera e degli oceani. Una cifra comunque decisamente inferiore alle sovvenzioni annuali alle fonti fossili. E in Europa? Il blocco di Visegrad, il quartetto composto da Estonia, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, sta ostinatamente rallentando l’approvazione dei goal fissati all’anno domini 2050 perché, all’ombra dei temi ambientali e dei turbonazionalismi, è anzitutto la prospettiva di lauti contributi al prossimo bilancio comunitario a orientarne la postura negazionista. Gli altri sono per lo più impegnati a traccheggiare, ossia, secondo Wikipedia, “cercare di guadagnare tempo o di mandare per le lunghe, talvolta affannandosi, per rimandare una decisione o un impegno” o ancora ad “assumere un atteggiamento compassato di apparente e controllata irresolutezza”.
Meanwhile i modelli economici ed ecologici su cui si basavano i concetti di sviluppo, modernità e progresso sono continuamente minati dal progressivo emergere di cigni neri. La capacità predittiva di agroindustria e climatologi è disinnescata da variabili che sappiamo osservare ma non anticipare. Se è vero che la crisi ecologica ha assunto le dimensioni e l’intensità di iperoggetto, un’entità ulteriore rispetto alla nostra capacità percettiva eppure presente per mezzo di affermazioni continue e parziali, dobbiamo immaginare e agire un set di soluzioni su scala globale. Dentro questa consapevolezza, enorme e mai libera da timori, può emergere una nuova disponibilità a rinunciare definitivamente ad un affresco del domani che la terra non può sostenere, anche per mezzo di un protagonismo delle lotte che al primato dell’economia antepongono la sopravvivenza dei primati e del mondo che li ospita.