Apparso su A/Rivista (febbraio 2016)
La conferenza parigina sul clima si è conclusa, dopo tredici giorni, con la firma di una carta di intenti.
Ma in che modo si è proposta di arrestare il cambiamento climatico e con quali strumenti? Un’analisi della conferenza Cop21, al di là del suo successo mediatico.
Il risultato istituzionale era prevedibile e al tempo stesso non scontato: contenimento del surriscaldamento climatico entro i due gradi, tetto scalare ai gas serra nel secolo che viene, conferenze di controllo quinquennali, stanziamento di 100 miliardi all’anno ai paesi “in via di sviluppo” per l’efficientamento energetico e l’attuazione di politiche sostenibili. Oltre 190 i paesi che hanno prima firmato la carta d’intenti e subito dichiarato il successo del loro operato a reti unificate, non ultimo una completa assenza di strumenti per agganciare al nostro inquinato suolo le parole spese nell’arco di tredici giorni di Conferenza. Facciamo un passo indietro…
Ipotesi di lavoro
Cominciamo con un esercizio: ammettiamo, a titolo d’esempio, che il Protocollo di Kyoto e le sue successive implementazioni, abbiano funzionato. A dispetto del titolo, proviamo a guardare al ciclo di Conferenze sui cambiamenti climatici non con gli occhi speranzosi di un’umanità spaventata dall’instabilità del clima, ma con quelli funzionali di un’economia asfittica, in cerca di giustificazioni per promuovere un massiccio intervento pecuniario, culturale e normativo con la copertura politica della febbre del pianeta. I mercati di emissioni, e la loro recente derivazione finanziaria, il trasferimento di tecnologie dai paesi del nord ai paesi del sud, la promozione di un indice di produzione e assorbimento equivalente di CO2, non hanno risolto e non risolveranno l’aumento di temperatura del pianeta. L’unica flessione verificabile delle emissioni si ebbe nel (solo) anno 2011, quando il drago cinese subì con più forza l’impatto della crisi economica. Le politiche messe in campo in ventitré anni di COP, servivano semplicemente ad altro: creare nuovi sbocchi di mercato e dare così fiato, oltre che legittimità ad un’iniezione, ulteriore, di finanza e tecnocrazia, nel panorama delle cure per la Terra. Sotto questa lente d’osservazione, la grande attenzione mediatica di cui ha goduto la Conferenza parigina acquisisce un significato ulteriore: la ricerca di un accordo vincolante per i paesi in via di sviluppo rappresenta solo la prima parte della sfida presente, lo step ulteriore è la legittimazione (con l’orizzonte della sostenibilità) dell’ennesima iniezione di finanziamenti pubblici e investimenti privati per il rilancio di progetti di green-economy.
La terra
Sappiamo dell’esistenza del fenomeno volgarmente noto come “effetto serra” da oltre un secolo, abbiamo capito col passare dei decenni che la causa determinante era l’innalzamento percentuale della CO2 in atmosfera, sappiamo oggi che questo innalzamento è originato dalle attività umane. Agricoltura, industria, trasporti… non sono che le prime voci del bilancio energivoro delle nostre attività, un bilancio che sta intaccando la composizione fisica e chimica degli ecosistemi che insistono sui territori con una rapidità ieri sconosciuta. Di fronte all’evidenza qualcuno insiste: e se non fosse l’uomo il problema? Voi rispondetegli “nulla cambierebbe”. Poniamo, per semplice esercizio mentale, che il contributo di oltre 7 miliardi di esseri umani sia irrilevante e che i gas climalteranti siano l’effetto secondario delle flatulenze di un enorme mostro marino nascosto nel fondo della Fossa delle Marianne; il problema non si sposterebbe di un millimetro. Per quel che ne sappiamo oggi, tra i viventi più impreparati ad affrontare il cambiamenti ci sono gli umani, se vogliamo sopravvivere su questa terra, tocca prendere delle misure per invertire la rotta oggi. Di ritorno dal mondo delle favole, è il momento di scegliere tra la gamma di soluzione offerte della stessa economia materiale e finanziaria che ha avvelenato la terra e un’inversione di tendenza utile a ricomporre l’equilibrio del nostro stare al mondo dentro comunità simbiotiche con i territori che ci ospitano.
La guerra
Tra le 21.16 e le 21.55 dello scorso 13 novembre, una serie di esplosioni e sparatorie hanno sconvolto diversi quartieri della capitale francese. A dieci mesi dall’attentato a Charlie Hebdo, una Parigi sempre più spaventata dall’aggressività di Daesh, risponde convocando uno stato d’emergenza straordinario di tre mesi. “Sovrano è chi decide dello stato d’eccezione” si sarebbe detto un tempo. Oggi, nell’era della crisi degli stati-nazione, della globalizzazione della paura, dei muri edificati sulle macerie di quelli abbattuti, la sentenza è più attuale che mai. Il fanatismo religioso porta la strage nel cuore d’Europa, la commozione nazionale legittima il discorso bidimensionale del “noi” e del “loro”, costringendo ciascuno a prendere posizione, a scegliere un nemico e un alleato. La COP è stata confermata, fortificata da una valenza simbolica ieri assente, ogni manifestazione è immediatamente proibita (317 gli arresti nella sola giornata del 29 novembre) mentre venti di guerra soffiano impietosi.
Dentro la reazione solo apparentemente inevitabile alla politica del terrore, cresce la politica del nemico interno: il viaggiatore, il migrante, il manifestante non sono che le prime impersonificazioni di un “sospetto” assolutamente collettivo e, in potenza, universale. Siamo tutti vittime, potenzialmente tutti carnefici, almeno agli occhi dello stato che estende l’emergenza pianificata dai dodici giorni del limite di legge all’intera stagione.
I corpi
Dopo anni di oblio, nella sovraesposizione massmediatica di quelle ore, la corporeità resta la grande assente. Ai discorsi, ai palchi, alle promesse d’impegno, non corrispondono nel format prescelto le piazze e i loro temi, non corrisponde l’esodo dei profughi climatici né alcun riferimento alle conseguenze presenti e tangibili dello scioglimento dei ghiacciai, delle siccità che innescano povertà e rivolte, dei fenomeni climatici estremi e delle loro conseguenze. Il corpo non è in piazza e non è quindi parte in causa nel discorso televisivo dei capi di stato. A sei anni dal tradimento della COP15 di Copenhagen, a un anno dalla più snobbata delle Conferenze a Lima, duecentomila persone erano previste a Parigi per le due manifestazioni in occasione dell’apertura e chiusura del meeting. Il corteo non autorizzato del 29 novembre s’è concluso con 317 arresti, quello del dodici dicembre si è tenuto nonostante l’assoluto divieto di scendere in piazza. Perché anche di questo c’è bisogno, di scavare più a fondo del discorso della speranza (e di quello a lui speculare della paura) e di riportare in piazza il corpo, nonostante il discorso della speranza e della paura.
La Conferenza e chi ne sta fuori
Obiettivo dichiarato delle tredici giornate di lavori era la firma di un accordo capace di sostituire il Protocollo di Kyoto (in scadenza nel 2020). Il documento, frutto delle intenzioni già espresse dai delegati degli oltre duecento stati partecipanti nelle diverse tappe della fase negoziale, dovrebbe prevedibilmente essere ispirato a due criteri: 1) per la prima volta siano indicati limiti vincolanti di emissioni anche per i paesi in via di sviluppo, 2) contenere il riscaldamento globale entro i due gradi centigradi.
Tra il 16 e il 18 novembre le dichiarazioni di Hollande hanno chiarito che le restrizioni alle libertà dei cittadini francesi e dei climattivisti pervenuti per la COP saranno sacrificate sull’altare di un evento a misura di lobby e ministeri, non di movimenti e associazioni. I gruppi di pressione sono così posti sotto scacco, mentre sponsor come Renault-Nissan o Total avocano a sé la carta del dibattito sulla sostenibilità attraverso gli eventi collaterali alla COP… e la copertura del 20% dei costi della macchina organizzativa, secondo le stime elaborate dall’ONG Transnational Institute.
Proprio le ONG esterne al forum istituzionale si sono date appuntamento per le giornate di mobilitazione al “104”, uno spazio offerto dal comune per momenti di confronto, workshop, formazione. Tra le sigle aderenti Climate Justice Action, Climate Justice Network e altre 130 sigle riunite nel cartello “Coalition Climat”. Al di fuori degli spazi di agibilità concessi dall’amministrazione locale, la parola è ai collettivi ed alle assemblee che fanno riferimento ai siti web anticop21.org e paris-luttes.info, attiviste ed attivisti che non ripongono alcuna fiducia nell’esito della Conferenza ma che collegano l’emergenza climatica allo stato di emergenza in sperimentazione nel paese. Il 12 dicembre, nonostante i divieti imposti sino all’ultimo minuto dallo stato d’urgenza, ventimila persone si convocano sull’Avenue de la Grande Arméè per un presidio che presto sfocia in un corteo spontaneo in direzione della Torre Eiffel dove alle 14 è prevista l’unica mobilitazione concessa per la giornata di chiusura della COP. Tra sit-in, improvvisati comizi e artigianali coreografie, il muro del silenzio e con esso la cappa di lutto della capitale francese, sono spezzati dalla forza di migliaia di climattivisti. Alle 17 un corteo spontaneo di denuncia dei 26 obblighi di dimora comminati dieci giorni prima, parte da Belleville (salvo essere poi imbrigliato da un paranoico dispositivo di polizia) il tutto si svolge comunque senza incidenti, anche grazie alla grinta trasmessa dalla samba-band.
Contraddizioni
Le contraddizioni in seno alla governance energetica saldamente ancorata ai combustibili fossili affiorano ai margini del meeting, eppure sia gli investimenti dei paesi più inquinanti sul globo, sia la cappa di silenzio sullo stato di emergenza paiono non preoccupare i commentatori più distratti. Le bozze dei primi di dicembre del documento parigino già confermavano la nociva attualità di concetti quali “mitigazione” e “compensazione” e il dimagrimento delle politiche di contrasto diretto del mutamento in atto. Intanto il limite delle 480 parti per milione di CO2 nell’aria cresce ad ogni respiro, indifferente al confronto geopolitico in atto: il successo mediatico è probabile, quello climatico e democratico ben più distante.