Articolo apparso su NapoliMonitor (febbraio 2019)
Nel mese di dicembre 2018, dopo 29 anni di belle speranze, Milano ha ultimato la sua scalata al primato di città più vivibile dello stivale.
È stata dura, è stata sofferta e mai scontata, ma Milano ce l’ha fatta. Chi lo asserisce, parola di Sole 24 ore, è l’Indagine sulla vivibilità delle province (ma non erano sparite?) italiane. Con sei macro-aree d’indagine, e 42 indicatori complessivi, il podio dell’organo d’informazione confindustriale ha fatto ben più rumore di quello pubblicato appena un mese prima da Italia Oggi (commissionato da La Sapienza, non proprio un ente di basso profilo) che la relegava attorno a metà classifica e comunque oltre il cinquantesimo posto. Il capoluogo lombardo svetta per reddito, lavoro e servizi. Al primo posto per depositi in banca pro capite, ha un buon tasso di occupazione e vince come migliore smart city. Anche la cultura sale sul podio, con la spesa media dei milanesi al botteghino.
Va rilevato il classico vizio dell’indagine nella scelta dei valori macroeconomici da considerare, che al solito ha privilegiato valori molto sintetici e sbrigativi ma poco descrittivi, utili a rivelare valori medi pro-capite ma inutili a descrivere la distribuzione del benessere attraverso, a titolo d’esempio, l’utilizzo dei decili, scelta che avrebbe raccontato molto di più su una realtà sociale incomprimibile in un punteggio adeguato alla logica della classifica. La capitale economica del paese si posiziona a quota 92 su 107 nell’area “giustizia e sicurezza” individuata dai censori del gruppo 24 ore e il costo della vita è sì sul podio ma solo per il titolo di fanalino di coda. Nella nostra smart city preferita il microparticolato, noto come PM10, e gli altri agenti inquinanti più comuni sono abbondantemente sopra la soglia di tolleranza il 40% dei giorni dell’anno solare. Nel solo primo mese del 2019 oltre la metà dei 35 giorni di sforamento annuale del limite di concentrazione di PM10 sono letteralmente andati in fumo, il rispetto delle soglie individuate in sede europea per la tutela di pelle, cuore e polmoni è già (anche quest’anno) matematicamente impossibile nei centri di comando del profondo nord produttivo. Tutto questo non ha alcun peso specifico nell’Indagine e, anzi, un’analisi appena più accorta della composizione degli indicatori denuncia proprio una scarsa attenzione agli indici di qualità ambientale su cui l’Arpa (l’Agenzia regionale per l’ambiente) produce, analizza e pubblica dati sulla qualità dell’aria che respiriamo giorno dopo giorno.
Come può dunque una città segnata da solchi sociali tanto profondi, e da patologie ambientali conclamate, spiccare in vetta anche a questa blasonata classifica? Passino i chiacchierati derby con la capitale sugli afflussi turistici o le schermaglie con la città sabauda in fatto di attrattività culturale. Per sciogliere questo particolare enigma dobbiamo ripartire, per sommi capi, dalle fasi che hanno segnato il rinascimento post industriale meneghino. Pronti? In principio erano le aree a vocazione industriale esausta, i quartieri popolari nascosti sotto la spessa fuliggine dell’oblio, il desiderio di partecipare al cerchio magico di un’attrattività turistica, equamente spartita tra Roma, Firenze e Venezia. L’emancipazione della locomotiva del paese, che “per l’Europa è Italia e per l’Italia è Europa”, venne prima dopata dai poli di rigenerazione urbana, quindi frustrata dal taglio ai trasferimenti statali. A un tempo drogata dalla rincorsa a Expo e confortata da un maquillage di sinistra con l’avvento della giunta Pisapia. Ancora, ma stiamo già galoppando verso gli anni più recenti, sono state le fotogallery di boschi verticali, food-porn da aperitivo-time e incubatori d’impresa postlaurea a segnare l’universo simbolico della città in cui a ogni settimana corrisponde un evento, un tema, un’effimera performance di presenza e condivisione social. Il 2018 è stato l’anno di Starbucks, Apple, di C40 e del claim Milano2030, nel 2019 quanto possiamo accelerare ancora, pur di lasciarci alle spalle l’untuosità del mondo reale?
L’economia ristagna? Milano corre tra nuova impresa e start-up. La Brexit minaccia il primato europeo? Milano si candida come alternativa. Gli italiani non fanno figli? Milano cresce e attrae una popolazione giovane, nazionale ed internazionale, creativa e professionale. Il mercato immobiliare è al palo? Milano costruisce. Non stiamo adesso a ironizzare sul fatto che il progetto di riapertura dei navigli sia naufragato e che l’ex piazza d’armi della città sia oggetto di quotidiana contesa tra abitanti e amministrazione comunale. Quello su Milano è anzitutto un preciso discorso pubblico. Le parole sono ponderate, ripetute, stressate come si deve nel grande ufficio del marketing territoriale globalizzato. Secondo l’ultimo rapporto F.I.A.I.P. (Federazione italiana agenti immobiliari professionali) “abbiamo dei leggeri aumenti esclusivamente su Milano e qualche ‘zero virgola’ in alcune zone di Napoli, per il resto i prezzi sono stabili con leggerissime diminuzione in alcune province”.
Laddove tutto è fermo, a Milano (e un poco pure a Napoli!) si vende, si vende il “nuovo”, lo si fa a gran velocità nonostante il mercato lamenti la stagnazione dei prezzi. La rendita di posizione resta un fattore determinante di questo “sviluppo” che convoca un pubblico (di investitori oltre che di abitanti) tanto attento al continuo aumento della percezione del valore, quanto disinteressato al tipo di città che così prende forma. Come leggere il ricorso della più blasonata real estate meneghina al rifinanziamento del suo debito per quasi un miliardo di euro, non più di due mesi fa? In che modo preservarci dal numero determinato di filtri cromatici disponibili per la narrativa urbana a mezzo social? Secondo quale prospettiva lo skyline ci restituisce una mappa aggiornata della geografia dei nuovi poteri che determinano i modi di vita su un territorio definito? Più prosaicamente: quale intuizione ci consegna questo volo radente sopra la città di oggi e di domani?
Anzitutto che la qualità della vita o è per tutti o non è. In seconda battuta che un processo di crescita esclusiva, sebben confortato da vendite e rendite nel breve termine, non è né riproducibile né desiderabile. In terzo luogo un impoverimento del tessuto sociale, oltre che delle tasche di chi è escluso dalla cerchia degli eletti. Se il soggetto pubblico, sovente arginato nel ruolo (comunque scomodo) di regolatore interessi privati, non solo non è in grado di arginare il protagonismo dei promotori di questa vision ma ne ricalca i miraggi e le ambizioni di gloria internazionale, chi si scommetterà sulla tutela di quella “funzione sociale della proprietà” che in ambito urbano usiamo chiamare “città pubblica”? In questa cornice di senso, e di non sense, si deve cercare la tessitura di un osservatorio non solo metropolitano sulle rotte che evidenziano la mutazione genetica delle aree metropolitane, a partire dal caso di studio milanese, in una direzione che punta all’esclusività, ma trova il suo esito necessario e inevitabile anzitutto nell’esclusione.